MONTECASSINO - DEDICAZIONE DELLA BASILICA CATTEDRALE

  • Tommaso Villa

Celebriamo la solennità della dedicazione della nostra Basilica Cattedrale e lo facciamo il 1 ottobre, ricordando il giorno nel quale papa Alessandro II, nel 1071, consacrò la Chiesa voluta dall’abate Desiderio. Paolo VI stesso, che ha consacrato il 24 ottobre del 1964 questa chiesa, ricostruita dopo la distruzione della II Guerra mondiale, ha voluto che si mantenesse l’antica data. Il significato di ciò che stiamo celebrando è bene espresso dalla Colletta che, a nome di tutti, ho pregato all’inizio di questa celebrazione; la riascoltiamo: «Accetta, o Padre, le preghiere del tuo popolo che ricorda con gioia il giorno della dedicazione di questa santo tempio, perché la comunità che qui si raduna possa offrirti un servizio puro e irreprensibile e ottenga pienamente i frutti della redenzione». Vorrei sostare con voi su tre espressioni di questa preghiera e rileggerle nella luce dei testi biblici che abbiamo ascoltato. Le tre espressioni sono queste: «ricordiamo con gioia»; «desideriamo offrirti un servizio puro e irreprensibile»; «desideriamo ottenere pienamente i frutti della redenzione».

Anzitutto c’è il tema della gioia, perché, come ci ha ricordato la Lettera agli Ebrei, noi, in questa Chiesa, radunandoci in essa per ascoltare la parola di Dio e condividere insieme il pane della vita, ci siamo accostati «alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a migliaia di angeli, all’adunanza festosa, gioiosa, e all’assemblea dei primogeniti i cui nomi sono scritti nei cieli». Quella che celebriamo è la gioia della comunione, non solo tra di noi, ma addirittura con il cielo di Dio e con tutti coloro che lo abitano, e lodano incessantemente Dio e il suo Cristo nello Spirito Santo. La chiesa, questa chiesa, ogni chiesa, è come un ponte, o come una porta aperta, che consentono al cielo e alla terra di dialogare, di comunicare, di fare alleanza, di essere in comunione: il cielo viene a dimorare sulla terra e la terra può salire verso il cielo. Questo è ciò che deve darci gioia, questo è ciò che deve esserci al cuore dei nostri desideri: non solo il desiderio del cielo, ma soprattutto il desiderio di comunione e di pace tra il cielo e la terra. Perché se la terra è in comunione con il cielo, è in pace con il cielo, allora ci sarà anche pace sulla terra, pace tra di noi, perché la nostra pace non può che trovare il suo fondamento in Dio e nell’essere in pace con lui. Lo cantano gli angeli nella notte di Natale, quando in Gesù il cielo di Dio viene a dimorare sulla terra, e lo abbiamo anche noi cantato nel “Gloria”: «gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà, pace in terra agli uomini che egli ama». Non riusciamo davvero a essere in pace tra di noi se lo sguardo della nostra adorazione e della nostra lode non si alza con decisione verso Dio e verso la sua dimora di pace.

Per questo motivo, per desiderare davvero la pace e la comunione, dobbiamo essere disponibili e pronti, ben preparati a offrire a Dio «un servizio puro e irreprensibile». Anche in questa chiesa dobbiamo offrire a Dio questo servizio puro e irreprensibile, che è anzitutto il servizio della nostra preghiera, come ci ha ricordato nella prima lettura il profeta Isaia. Infatti, attraverso il suo profeta Dio ci promette: «li condurrò sul mio santo monte e li colmerò di gioia nella mia casa di preghiera… la mia casa si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli». Questa chiesa è casa di preghiera, e qui la gioia della comunione, il desiderio di pace si fanno preghiera. Non solo nel senso più ovvio che dobbiamo pregare per la pace, ma nel senso più profondo e meno scontato che la preghiera è una via di pace, perché ci aiuta a vivere una relazione con Dio così vera e autentica che la nostra vita entra nella pace e impara a gettare parole, a seminare gesti di pace, ad annunciare pace, a testimoniare pace attorno a sé. Chi trova nella preghiera la sua pace diventa persona capace di irradiare pace, di diffondere pace attorno a sé. Se preghiamo a lungo in questa chiesa, come in ogni altra chiesa, ma poi non portiamo pace là dove viviamo, nelle nostre case, nei luoghi del nostro lavoro, nelle nostre scuole, nelle nostre caserme, nei nostri monasteri, la nostra preghiera rimane vana, sterile, illusoria, non sincera.

Ma la preghiera non è solo frutto del nostro sforzo, conquista del nostro impegno, è anzitutto – come ci insegna san Benedetto – opus Dei, opera di Dio, che agisce in noi. È anch’essa – ecco la terza espressione della Colletta che desidero evidenziare – «frutto della redenzione». È frutto della Pasqua di Gesù, della sua liberazione dal male. Noi siamo stati redenti, riscattati, dal male e dalla morte; le catene che ci imprigionavano sono state spezzate da Gesù risorto e vivente per sempre. E ciò da cui Gesù ci ha liberato è anche, forse soprattutto, da una falsa immagine di Dio, da un modo sbagliato di rapportarci con lui, di pregarlo e di cercare la gioia di una relazione sincera con lui. Ricordiamo tutti come, quando san Benedetto, quasi 1500 anni fa, è giunto da Subiaco su questo monte, ha prima di tutto distrutto templi e altari dedicati agli idoli morti, e ha costruito due oratori, due piccole chiese dedicate a san Martino e a san Giovanni Battista. Questa chiesa, ogni chiesa, deve essere questo: un luogo in cui rinunciamo ai nostri idoli, abbandoniamo in particolare un modo idolatrico di cercare e di relazionarci al vero Dio, al Dio vivente, al Dio di Gesù Cristo. Gesù, nel Vangelo, lo ricorda alla Samaritana: non dobbiamo preoccuparci di quale sia il vero tempio, dobbiamo preoccuparci di adorare, in ogni chiesa, Dio in spirito e verità. Dobbiamo adorarlo in Gesù, che è verità, grazie allo Spirito che ci viene donato dal Padre per condurci alla verità tutta intera, per condurci a Gesù, in Gesù, per imparare da lui, soprattutto per dimorare in lui, e così, in lui, come lui, grazie a lui, adorare il Padre, in modo autentico, non idolatrico.

Questa è una via concreta per la pace. Quella pace di cui il mondo ha così estremo bisogno, e che pure non sa darsi, quella pace che desideriamo trovare anche in questa chiesa, in questa abbazia, cercandola come luogo di pace. «In questo luogo porrò la pace» (Ag 2,9), promette Dio attraverso il suo profeta Aggeo. Desideriamo che questo sia luogo di pace, che da questo luogo la pace possa davvero scendere e irradiarsi sul mondo. «In questo luogo porrò la pace»: dobbiamo avere fiducia in questa promessa di Dio. Dobbiamo crederle. Ma anche Dio ha fiducia in noi e ci chiede qualcosa, per accogliere il suo dono, per testimoniarlo, per condividerlo. E ciò che ci chiede è che davvero desideriamo, con sincerità e con fedeltà, la gioia della comunione e della pace. Cerchiamo la felicità in tante realtà ed esperienze che poi ci deludono e ci lasciano insoddisfatti, con l’amaro in bocca; Dio ci chiede di imparare a cercare la gioia della pace e della comunione. Per farlo dobbiamo davvero diventare uomini e donne di preghiera, che sanno custodire la relazione con Dio, per ricevere da lui il dono della sua pace e condividerlo con altri. Dobbiamo pregare per la pace, ma soprattutto dobbiamo imparare a diventare persone pacificate e operatrici di pace grazie alla preghiera. Una preghiera intensa, opera di Dio in noi, opera della sua redenzione, che ci libera dal male, dal peccato, dalla morte; che ci libera dall’idolatria, dai falsi idoli, da un volto menzognero di Dio, per imparare a conoscere e adorare il suo vero volto, in spirito e verità. Nello Spirito che ci conduce in Gesù, che ci fa dimorare in lui, che è la verità, la nostra verità, ed è il nostro vero tempio, nel quale possiamo incontrare, senza paura di ingannarci, o di lasciarci ingannare dagli idoli, il vero volto di Dio. Il vero volto del Dio della Pace!

Dom Luca Fallica

abate di Montecassino