SALUTE MENTALE - ADOLESCENTI, GIOVANI E GENITORI
- Tommaso Villa
Oggi è la Giornata Mondiale della Salute Mentale: un problema di salute pubblica.
Abbiamo chiesto alcune riflessioni a Lucio Maciocia su adolescenza e salute mentale.
Gli adolescenti ed i giovani non sono tutti uguali, così come non sono tutti uguali gli adulti. Ci sono grandissime differenze e situazioni di unicità, ci sono dolori trasversali, rabbie che consumano vite, desideri mercificati e diagnosi differenziate. Una maniera per parlare di adolescenza, giovani e salute mentale è forse quella di iniziare dal mondo degli adulti.
Gli adolescenti e i giovani sono un chiaro riflesso delle problematiche esistenti nel mondo degli adulti. Prima di calarci nelle problematiche e nelle lamentazioni sulla salute mentale dei giovani, dovremmo occuparci della salute mentale degli adulti.
Faccio una ipotesi: faccio parte della generazione nata alla fine degli anni 50 e agli inizi dei 60 ed ho la netta impressione, non suffragata da alcuno studio, che le generazioni successive, nate negli anni 70-80-90, nella quale si addensano gli attuali genitori di adolescenti e giovani, in qualche modo sono generazioni che si sono trovate in mezzo ad una rivoluzione culturale, tecnologica e sociale che ha stravolto le modalità di vita in Italia (in altre parti del mondo dovrebbe essere stato diverso).
Si dice che le trasformazioni culturali, tecnologiche, sociali e individuali che hanno attraversato il mondo occidentale negli ultimi 50 anni sono il risultato di una accelerazione tecnica unica nella storia dell’uomo. In Italia questa accelerazione ha comportato modificazioni sociali e nella vita individuale di ciascuno di noi, favorendo un rapido passaggio da una tendenza “positiva” e “positivistica” delle future sorti e progressive ad una precarietà di fondo che ha disarmato le coscienze e compromesso l’idea di futuro.
La mia generazione ha vissuto e in qualche modo si è sentita protagonista nel passaggio attraverso alcune grandi manifestazioni di massa: la televisione ci ha accompagnato, i primi computer sono cresciuti con noi, i primi telefonini sono passati dalle nostre mani.
Paradossalmente chi è venuto dopo la nostra generazione ha usufruito di queste modifiche delle abitudini e degli strumenti ma non ne è stato protagonista. Lo smartphone è una innovazione tecnica che noi vecchi ancora reggiamo, mentre gli adolescenti e i giovani d’oggi si trovano nelle condizioni di essere nati nell’era digitale: usano lo strumento molto meglio di noi, ma sembra essere lo strumento ad usare loro e a dettare tempi e modi dell’utilizzo.
Per noi Boomer la strada, il campetto, l’assemblea, la vita gruppale hanno avuto un senso e hanno contribuito alla formazione identitaria; per le nuove generazioni, quelle del riflusso economico e sociale, si sono ritrovate molto più sole in un contesto sociale in cui la società si è trasformata sempre più in un luogo abitato da individui molto più solitari e, soprattutto precari. La precarietà e la solitudine di questi adulti hanno, in qualche modo, avuto delle feroci ripercussioni sui figli di questa generazione.
La precarietà, la competitività spinta, la performance, l’adesione al lavoro, il successo individuale, hanno preso un tale sopravvento che questi genitori, madri e padri, sono, forse, più deboli, soli, poco abituati ad un pensiero critico, forse più superficiali, attenti all’aspetto esteriore, uniformati, contagiati da mode e stereotipi. Nati con la televisione ne hanno bevuto contenuti e illusioni, distaccandosi dal mondo dei padri e delle madri usciti dalla guerra e dagli anni Sessanta, e sono rimasti imbevuti di individualismo, competitività, ritmi elevati, prestazioni e precarietà.
Con la fine degli anni Settanta in Italia è finita l’era del boom economico, la speranza collettiva di superare il destino dei padri e la possibilità concreta di realizzazione personale molto più soddisfacente da parte dei figli. Questa generazione ha perduto certezze e non ha potuto e saputo costruirne per i propri figli.
Fatta questa lunga premessa che riguarda sostanzialmente la fragilità di una generazione di genitori, passo a formulare delle ipotesi rispetto alla salute mentale dei nostri adolescenti e giovani. Per farlo mi posiziono nell’ottica della mia esperienza nei Gruppi Psicoanalitici Multifamiliari: la compresenza di padri e madri, a volte nonne, e figli, fratelli e sorelle, permette di riconsiderare la storia e la presenza dei diversi disturbi nei figli come riproposizioni di avvenimenti e situazioni già presenti nelle storie genitoriali.
L’angoscia e il dolore dei genitori, e delle generazioni precedenti, trova vita e riedizione nei disturbi dei figli: disturbi mentali, isolamento, depressione, disturbi del comportamento alimentare, dipendenza da sostanze e da realtà virtuale. La fragilità dei figli riflette e amplifica le fragilità già presenti nella vita dei genitori, in una trasmissione transgenerazionale del dolore.
È un racconto che si sussegue negli incontri del gruppo, appena si sposta l’attenzione dal disturbo del figlio emergono il dolore, la rabbia, la sofferenza, la lotta tra parenti all’interno delle vite dei genitori, i sacrifici, le speranze deluse, il non voler ripetere le storie terribili che hanno contraddistinto la storia familiare e l’inesorabilità della ripetizione, incarnata nei figli. Da una generazione sofferente, per la precarietà, per la solitudine, per un sentimento di inadeguatezza, per la scomparsa di una speranza di cambiamento, nel ritrovarsi all’interno delle stesse gabbie che si immaginavano da superare, vive la frustrazione e il dolore del genitore e si concretizza la sofferenza, senza nome, dei figli.
Un elemento che sembra accumunare genitori e figli è la solitudine, l’angoscia del sentirsi inappropriati e “sbagliati”, in qualche modo sedotti dalla malinconia della rabbia e del risentimento. E c’è un’unica direzione in cui si scatena questa angoscia: all’interno della famiglia stessa.
Ciascuno avverte il dolore proprio e percepisce, senza volerlo capire, il dolore dell’altro, in un sordo accudirsi e maledirsi, lanciandosi accuse reciproche, rimproveri e richiudendosi sempre di più. Sia la famiglia che i figli non trovano sbocchi al di fuori, anzi la realtà esterna è avvertita come persecutoria, violenta, pericolosa, in un sentirsi inadeguati alla vita sociale. La famiglia si chiude, il figlio nel suo disagio rabbioso che trova solo nei genitori e nei parenti una sua concretezza, la famiglia si sente disperata, incapace di affrontare tanto dolore e usa il contenitore umano del corpo del figlio per scaricare le proprie angosce e rabbie.
Si può arrivare ad accuse gravissime: tu non mi vedi, io faccio tutto per te ma tu sei un ingrato, non sei capace, sei un fallito, non vuoi crescere, poverino non ce la fa, vorrei che non fossi nato, non ti ho chiesto io di venire al mondo. Il risultato è che la famiglia diviene l’incubo quotidiano dove si concretizza uno stillicidio di rabbia ed i genitori vivono la malattia del figlio come una condanna e una sorta di spiegazione alla propria angoscia, alla propria delusione, alla propria rabbia. La gabbia è perfetta, genitori e figli chiusi nella stessa prigione, con i genitori che si affannano a comunicare al resto del piccolo mondo dei servizi, che soli, sono testimoni di questa lotta, che loro ce l’hanno messa tutta, ma che i figli non vogliono e/o non possono guarire, e allora è meglio che vadano via dai miei occhi e dalla mia mente.
Il problema nasce quando i figli vanno via, generalmente in una comunità e il comportamento disfunzionale della famiglia non cambia, il dolore che circola richiede nuovi sacrifici e nuovi dimensioni di dolore.
Il gruppo Multifamiliare offre questa straordinaria occasione di poter percepire il dolore dell’altro, di confrontarlo con il proprio, di comprendere e commuoversi per la scoperta, di poter, insieme, genitori e figli, intravvedere una possibilità di convivenza senza urla e rabbia, con la possibilità di incontrarsi emotivamente in territori comuni di dolore, dove il figlio può finalmente togliersi di dosso un dolore senza nome che gli deriva dalla storia familiare, di cui non può essere consapevole, e il genitore, per la prima volta nella sua vita, intravede una diversa possibilità di viversi e di uscire dalla gabbia in cui si è rinchiuso insieme al figlio.
Un’altra considerazione di tipo sociologico: sembra essere sempre più evidente, nel racconto di questi adolescenti e nei racconti delle storie familiari, che l’incontro con l’altro, la realtà esterna venga sentita come persecutoria e difficile. Molto meglio incatenare quelle poche persone che vivono nella mia cerchia ristretta e riversare su di loro tutta l’angoscia, la paura e il sentimento di inadeguatezza e, al limite, di incapacità, piuttosto che affrontare l’altro, l’estraneo, il gruppo dei coetanei.
Questo gruppo è formato soprattutto da singoli individui con gradazioni di difficoltà e con gradazioni di competitività e capacità di autoaffermazione che ha bisogno di schiacciare l’altro, di sentirsi superiori. In molti dei ragazzi che si chiudono in famiglia con sintomi importanti, disturbi alimentari, disturbi del pensiero, dipendenze da sostanze, dipendenza da realtà virtuale, si sviluppa un forte sentimento di inadeguatezza, ad un certo punto della loro vita lo sguardo del coetaneo, più ancora che dell’adulto, diventa persecutore e sembra godere del fallimento altrui.
Non è necessariamente bullismo, forse è un bisogno estremo di conformismo ad un modello che sembra essere “vincente”, una maniera di vestirsi, una maniera di esibire il proprio corpo, una maniera di essere in un gruppo piuttosto che in un altro. E allora sembra essere più terribile lo sguardo della propria migliore amica, sembra essere terribile lo sguardo del compagno di classe famoso e vincente in un piccolo gruppo ad avere un effetto devastante. Si assiste ad una rinuncia, rinuncio a competere, esco dal continuo confronto con questi altri, sento di non reggere più questo controllo eccessivo dello sguardo del coetaneo, questo confronto senza solidarietà, senza comprensione, senza commozione.
La scuola spinge anche verso un mondo di adeguatezza, competitività e performance, dove non ci si può fermare per capire o per promuovere un incontro emotivamente intenso tra i ragazzi e gli adulti; l’insegnate, altrettanto alienato e impegnato in vari altri compiti sociali, madre e padre a sua volta, resta a covare i propri risentimenti e la propria difficoltà ad entrare in comunicazione con queste nuove generazioni. Questi ragazzi vengono avvertiti come distanti culturalmente e incomprensibili.
Ma questi ragazzi sono i nostri figli, sembrano essere talmente diversi da noi, ma sono i nostri figli e ci stanno comunicando che qualcosa che fa parte del nostro mondo non sta funzionando, che abbiamo perso il contatto con noi stessi, che noi stessi siamo superficiali e ci accontentiamo di ricette comprensibili e facili, di diagnosi che possano dirci cos’è che non funziona nei nostri figli, dietro i quali ci nascondiamo nella nostra terribile inadeguatezza di genitori.
In Italia ci sono sempre meno figli, il sentimento comune che sembra aleggiare è una certa sfiducia verso il futuro, che non è il futuro dei nostri figli, ha a che fare con l’incertezza del nostro futuro, la mancanza di una prospettiva, la disperazione per la morte della speranza di una felicità vagheggiata e che va sempre ricercata in altri posti, altrove, non vicino a me, ma andando in vacanza da noi stessi e dal nostro mondo, dai nostri posti di lavoro in cui sta mancando sempre più la solidarietà e la comprensione, dove si esercita un potere senza competenze, dove sentiamo di essere giudicati e giudicanti.
Le distanze tra le persone si stanno amplificando, le differenze tra ricchi e poveri si vanno ampliando, il potere di pochi su molti è sempre più sfacciato, ma le persone continuano ad essere uniche e straordinarie. Nel mondo degli adulti, così come nel mondo degli adolescenti e dei giovani ci sono persone bellissime, straordinarie, che cercano di migliorarsi e di comprendere, di reggere il pensiero complesso senza accontentarsi delle ricette e delle semplificazioni, volendo essere protagonisti attivi piuttosto che spettatori tifosi. Ho il sospetto che siano una piccola minoranza e il fatto che adesso la funzione del pensiero può essere a sua volta delegata all’intelligenza artificiale è una prospettiva inquietante.
Credo che sia un processo non arrestabile, credo che vada costruita pazientemente una abilità e una padronanza del mezzo per far si che altri non utilizzino questo potente strumento per una manipolazione di massa e/o per un controllo del consumatore dei desideri e delle aspettative. E’ una sfida appassionante. C’è uno scenario angoscioso che sembra riprendere fiato in questo nuovo secolo, che sembra riportarci indietro nell’incubo del novecento.
Questo scenario da incubo, credo, abbia notevoli effetti moltiplicatori nell’inconscio collettivo, l’idea della guerra sembra rispuntare e i nostri giovani si sentono minacciati da questa prospettiva. Credo che, come adulti, dobbiamo tornare ad essere protagonisti attivi verso una consapevolezza maggiore dei rischi e delle manipolazioni dei nuovi potenti del mondo, altrimenti la rabbia che cova nell’impotenza di questi giovani potrà essere nuovamente catturata dall’idea che una guerra contro un nemico qualsiasi possa essere una soluzione possibile.
Lucio Maciocia