ECONOMIA - CIOCIARIA : DAL BOOM ALLA DESERTIFICAZIONE

  • Tommaso Villa

Fino a pochi decenni fa la Ciociaria era un territorio in fermento. Le sirene delle fabbriche segnavano l’inizio e la fine dei turni, le tute blu riempivano le strade, l’indotto locale viveva in simbiosi con i grandi stabilimenti. L’industrializzazione degli anni Sessanta e Settanta aveva trasformato radicalmente il tessuto sociale, proiettando la Ciociaria da terra agricola a polo manifatturiero del Lazio meridionale.

Oggi, lo stesso territorio è costellato di capannoni vuoti, scheletri industriali e cartelli “affittasi”. Non è stato un collasso improvviso, ma un processo lungo, complesso e stratificato. Analizzare le cause della crisi industriale del Frusinate significa, in termini accademici, osservare un caso paradigmatico di “fallimento sistemico” di un distretto monocluster.

1. La dipendenza da pochi grandi pilastri Il Frusinate ha vissuto una crescita trainata da pochi giganti industriali:

Fiat Cassino (oggi Stellantis), con oltre 10.000 addetti negli anni ’80–’90;

Videocolor/VDC Technologies ad Anagni, con picchi di 2.400 dipendenti;

Marangoni Tyre sempre ad Anagni, con 400 addetti;

la Valeo di Ferentino, che nel suo massimo impiegava 800 persone;

l’Ilva di Patrica, specializzata in acciai zincati;

le Cartiere Meridionali a Isola del Liri, eredi di una tradizione ultracentenaria.

Un sistema produttivo che poggia quasi interamente su pochi colossi è fragile per definizione. In termini di economia industriale, il Frusinate è stato un “distretto monostrutturale”: quando il cuore si ferma, l’organismo intero collassa.

2. Le transizioni tecnologiche mancate Le crisi industriali non sono solo questione di cicli economici: sono soprattutto l’incapacità di cavalcare le transizioni tecnologiche.

Videocolor/VDC Technologies: specializzata nei tubi catodici, si trovò spiazzata dalla rivoluzione degli schermi piatti. Nonostante tentativi di diversificazione, la società dichiarò bancarotta nel 2012.

Marangoni Tyre: la globalizzazione del settore gomme e la concorrenza dei grandi player multinazionali resero insostenibile la produzione ad Anagni.

Fiat Cassino (oggi Stellantis): lo stabilimento, che un tempo dava lavoro a oltre 10.000 persone, ha progressivamente ridotto i volumi non tanto per ragioni tecnologiche, quanto perché la produzione di molti modelli è stata spostata in altri stabilimenti o in Paesi a minor costo del lavoro. La scelta di investire altrove ha ridimensionato drasticamente il ruolo del sito di Piedimonte San Germano.

Questi casi dimostrano che il problema non fu solo la crisi del 2008, ma la mancata capacità di innovare e di reinvestire in ricerca e sviluppo.

3. Gli shock globali: crisi finanziaria, pandemia, energia Tre ondate hanno colpito il tessuto industriale:

La crisi finanziaria del 2008–2013, che abbatté la domanda globale di beni durevoli, colpendo duramente auto, elettronica e componentistica.

La pandemia del 2020–2021, che interruppe le catene di fornitura, fermò interi stabilimenti e accelerò l’uscita di scena delle imprese più fragili.

La crisi energetica del 2022, che rese insostenibili i costi di produzione in settori energivori come ceramica, carta e chimica.

In un’area industriale già provata, questi shock hanno agito da acceleratori del declino.

4. Le infrastrutture mancate La geografia è favorevole: l’A1, la ferrovia Roma–Napoli, la vicinanza a Roma e a Napoli. Ma le infrastrutture di supporto sono state il grande assente.

L’Interporto di Frosinone, che doveva essere il volano della logistica intermodale, non è mai decollato ed è finito in fallimento nel 2020. I collegamenti ferroviari merci sono rimasti inadeguati. In termini di competitività, ogni container che parte da qui costa di più che altrove.

5. Ambiente e bonifiche: la zavorra della Valle del Sacco La Valle del Sacco è un Sito di Interesse Nazionale a causa dell’inquinamento chimico accumulato nei decenni. Questo ha significato vincoli rigidi, tempi lunghi e costi alti per chiunque volesse reindustrializzare. Molti investitori hanno preferito guardare altrove.

6. Politiche industriali tardive La provincia di Frosinone è stata riconosciuta “area di crisi industriale complessa” solo nel 2016, quando i cancelli di Videocolor, Marangoni e Ilva erano già chiusi da anni. Il PRRI (Progetto di Riconversione e Riqualificazione Industriale) è partito solo nel 2018. Troppo tardi per tamponare l’emorragia.

Questo ritardo istituzionale ha aggravato la perdita di fiducia degli imprenditori e dei lavoratori.

7. Demografia e capitale umano Infine, la crisi industriale si intreccia con la crisi demografica. La provincia di Frosinone perde abitanti ogni anno: nel 2023 ha registrato il calo più alto del Lazio, -3.077 residenti. I giovani più qualificati emigrano verso Roma, Milano o l’estero, privando il territorio di energie e competenze.

Un distretto industriale senza capitale umano diventa un guscio vuoto.

Conclusione: la crisi come manuale di economia applicata. Il Frusinate non è stato travolto da un destino ineluttabile, ma da una somma di cause strutturali: dipendenza da pochi colossi, incapacità di affrontare le transizioni tecnologiche, shock globali, infrastrutture mancate, vincoli ambientali, politiche tardive, declino demografico.

Un professore di economia industriale direbbe che questa è la fotografia di un “fallimento di sistema”, dove tutte le fragilità si sono sommate. Un giornalista direbbe che è la storia di un territorio che ha visto cadere una dopo l’altra le sue fabbriche, come foglie in autunno.

E il cittadino ciociaro cosa direbbe? Con poche parole, cariche di amarezza: “Una volta c’era lavoro per tutti, oggi restano solo i capannoni vuoti e i nostri figli che partono per non tornare più.”

Dura ma onesta realtà.