ECONOMIA - LA PARABOLA DISCENDENTE DELLA CIOCIARIA

  • Tommaso Villa

C’era un tempo in cui la Ciociaria brillava di luci industriali. Le notti di Anagni erano rischiarate dalle insegne della Videocolor, colosso dell’elettronica che dava lavoro a oltre duemila persone. A Ferentino, gli operai della Valeo uscivano a fine turno con ancora addosso il rumore dei compressori e dei condizionatori prodotti per le auto europee. A Patrica l’Ilva lavorava l’acciaio, mentre ad Anagni la Marangoni sfornava pneumatici che correvano sulle strade di mezzo continente. Isola Liri era piena zeppa di fabbriche.

Era l’età dell’oro. Negli anni ’80 e ’90 la Ciociaria era considerata la “seconda provincia industriale del Lazio”, dopo Roma. Lo stabilimento Fiat di Cassino sembrava invincibile, con oltre diecimila tute blu, e tutto attorno si muoveva un indotto di officine, carpentieri, trasportatori. Le cartiere di Isola del Liri respiravano ancora l’eco di una tradizione secolare, mentre nuove aziende chimiche, ceramiche e farmaceutiche nascevano come funghi.

Poi arrivò la lunga stagione dell’autunno.

La prima foglia a cadere fu la Videocolor: nel 2005 passata in mani straniere, resistette ancora qualche anno, ma non poté nulla contro l’avvento dei nuovi schermi piatti. Nel 2012 il tribunale dichiarò il fallimento. Mille lavoratori varcarono per l’ultima volta i cancelli, e quelle mura smisero di risuonare di macchinari.

Pochi mesi dopo fu la volta della Marangoni Tyre: nel 2013 spense le presse, lasciando a casa circa quattrocento persone. Un colpo durissimo, perché Anagni perdeva un altro gigante.

A Patrica la Ilva era già in agonia: nel 2014 la chiusura e i 64 licenziamenti furono solo l’epilogo di una crisi annunciata.

Intanto a Ferentino la Valeo, che negli anni ’90 contava quasi ottocento operai, cominciava a ridursi: oggi ne restano poche decine, e anche per loro il futuro è appeso a un filo.

E le cartiere? A Isola del Liri, simbolo della rivoluzione industriale ciociara, le Cartiere Meridionali chiusero nel 1993: centinaia di famiglie persero un reddito che da generazioni scorreva insieme all’acqua del Liri.

Negli anni successivi, come in un domino crudele, altre fabbriche caddero: la “Scala” di Castrocielo e Ceccano, la Italgasbeton di Anagni, interi capannoni della chimica e della plastica lungo la Valle del Sacco. Il cielo della Ciociaria, un tempo illuminato dalle sirene di cambio turno, si fece silenzioso.

Eppure il cuore non smise di battere. Il grande stabilimento di Cassino — oggi Stellantis — continua a produrre auto, ma i numeri parlano chiaro: dagli oltre diecimila addetti di un tempo a meno di tremila oggi, con un solo turno e milioni di ore di cassa integrazione. Anche qui, la sensazione è che la corda sia tesa fino al limite.

A Roccasecca, lo stabilimento Ideal Standard è stato riconvertito da Saxa Gres, ma negli ultimi mesi la crisi è tornata a mordere.

La fotografia complessiva è quella di una terra che in vent’anni ha visto svuotarsi capannoni e intere zone industriali, mentre aumentavano i chilometri percorsi dai giovani diretti verso Roma o l’estero.

Il Frusinate era un distretto operaio, oggi è un mosaico di cassa integrazione, capannoni dismessi e tentativi di rinascita. Non è la fine, ma un bivio. La memoria di quello che siamo stati — le migliaia di tute blu che hanno costruito il benessere di intere generazioni — può ancora diventare la forza per immaginare un futuro diverso: meno dipendente dall’auto, più radicato nelle eccellenze del farmaceutico, dell’agroalimentare, del turismo.

Il tempo delle fabbriche non è morto: è solo in attesa di una nuova primavera?

E di una nuova classe dirigente che non si limiti ad andare a Roma con il cappello in mano per la Zes, l'aeroporto, l'interporto, le fermate della Tav.