IL CASO - LOLLOBRIGIDA, RIGHINI E IL PECORINO... ROMANO

  • Tommaso Villa

"Lo stanziamento di 12,8 milioni di euro per la filiera del Pecorino Romano voluto dal ministro Francesco Lollobrigida (Fdi) è un segnale importante del Governo Meloni (Fdi) in un momento difficile per i nostri allevatori. Le aziende ovicaprine, come precisato anche da Coldiretti, stanno affrontando costi crescenti, dazi penalizzanti e gli effetti di recenti emergenze sanitarie. Per questo, come Regione Lazio, contribuiremo a rafforzare il fondo indigenti con adeguata copertura. Difendere il Pecorino Romano e il latte ovino del Lazio significa tutelare un patrimonio economico e culturale. Continueremo a lavorare in sinergia con il ministro Lollobrigida per garantire risposte adeguate ai bisogni degli agricoltori".

Questo trionfalistico post è dell'assessore regionale Giancarlo Righini (Fdi).

Per nostra pessima abitudine abbiamo provato a capire.

C’è una storia che comincia sempre allo stesso modo: un prodotto che tutti crediamo “di casa nostra”, una filera locale, tanta retorica sulla tradizione… e poi arriva la realtà a rovesciare il tavolo. La prima puntata l’abbiamo vissuta con il fungo porcino “nostrano”. Feste di paese, cartelloni rassicuranti, la favola del “prodotto dei nostri boschi”. Tutto bello, tutto familiare. Poi Report ha acceso la luce.

E si è scoperto che il porcino, essendo un fungo selvatico e non coltivabile, è uno dei prodotti più facili da manipolare nel racconto: una buona parte di quelli serviti come “locali” arrivano dall’Est Europa o perfino dalla Cina, vengono lavorati in Italia e finiscono in tavola come se fossero spuntati sotto un castagno di casa nostra.

Noi di Penna e Spada lo avevamo scritto con chiarezza. E qui arriva il passaggio orwelliano. Perché George Orwell, nel suo manuale sul linguaggio che maschera la realtà, l’aveva spiegato in modo perfetto: basta cambiare la parola e la percezione cambia con lei. È il principio del doublespeak: dire una cosa per farne intendere un’altra. E così un porcino dell'Est diventa “nostrano”. E un Pecorino Romano diventa “prodotto del Lazio”. La forma resta, il contenuto migra altrove. Ed eccoci quindi alla seconda puntata.

Il Pecorino Romano.

Quello che nell’immaginario collettivo rimanda ai pascoli dell’Agro e alle tradizioni pastorali della nostra regione. E qui è doveroso ricordarlo: il nome non viene dalla sede produttiva, ma dalla sua funzione originaria. Era il formaggio dei legionari dell’antica Roma, parte della loro razione quotidiana insieme al farro e al vino. Un alimento energetico, salato, conservabile: perfetto per le lunghe marce.

Ma se questa è la radice, la fotografia moderna racconta un’altra storia. Oggi il 95% del Pecorino Romano si produce in Sardegna. Un dato chiaro, limpido, ma che passa spesso sotto traccia quando si parla di “difesa della tradizione laziale”. E allora la domanda arriva inevitabile:

Perché una Regione investe così tanto su un prodotto che ormai è quasi totalmente sardo?

I 12,8 milioni stanziati dal ministro Francesco Lollobrigida sono un intervento importante, soprattutto in un momento in cui gli allevatori ovini affrontano costi fuori controllo, dazi penalizzanti e emergenze sanitarie che hanno messo in ginocchio interi territori. Proteggere il settore è giusto. Ma il punto politico-strategico è un altro. Molto più ingombrante. Molto più reale.

Il Lazio difende un nome che gli appartiene, ma una filiera che non gli appartiene più o quasi.

Qualche caseificio tra Roma e Viterbo resiste, con dignità e qualità. Ma la filiera vera, quella che produce, lavora, esporta e tiene in piedi un’economia intera, è in Sardegna. Un sistema completo, solido, radicato. Ed è qui che Orwell torna utile. Perché basta dire “Romano” e il problema sembra non esistere più. La parola copre la realtà. E la realtà resta lì sotto, immobile, ma invisibile ai più. E allora la domanda che nessuno vuole pronunciare è una sola:

Come ricostruiamo una filiera ovina laziale che abbia un peso reale e non solo storico?

Perché difendere una DOP è facile: basta pronunciare il nome giusto. Ricostruire una filiera è tutta un’altra cosa. Richiede: nuovi allevamenti; incentivi seri all’ovino da latte; trasformazione locale competitiva; prodotti davvero identitari. E speriamo che ciò venga veramente fatto. Il Pecorino Romano merita sostegno.

Ma il Lazio, quello vero, fatto di colline, pastori, aziende piccole e testarde, merita una strategia sua, non un applauso automatico a un marchio che oggi è più sardo che romano. Forse è da questo paradosso che può nascere la riflessione che manca. Perché i nomi raccontano una storia. Ma le economie, per vivere, devono averne una propria.

O no?